mercoledì 20 ottobre 2021

Come scrivere una teoria di complotto di successo


Bisogna riuscire a far breccia nel cuore del lettore di riferimento: ansioso, si percepisce impotente, parte di un gruppo discriminato; non crede che esista il caso e dietro ogni problema vede una intenzione malevola da parte di nemici stereotipati

Secondo una revisione pubblicata da aps nel 2017, firmata dagli psicologi dell’Università del Kent, Karen M. Douglas, Robbie M. Sutton e Aleksandra Cichocka, le credenze nelle teorie di complotto sembrano guidate da tre bisogni (gli autori usano il termine “motives”), che queste narrazioni non riescono comunque ad appagare: epistemici, esistenziali e sociali. Potremmo dire quindi, che l’autore complottista di successo deve suscitare interesse nelle persone con carenze, rispettivamente dal punto di vista della comprensione, del controllo e dell’immagine del proprio ambiente di appartenenza. 


Le minacce percepite al proprio ambiente potrebbero essere dovute a un meccanismo evolutosi in noi, detto complottismo adattivo, come descritto nella revisione di Jan-Willem van Prooijen e Mark van Vugt di cui ho trattato nell’articolo precedente, altrimenti inteso come sotto-prodotto delle euristiche. Il mind-set complottista, che ci appariva come una sorta di corto-circuito dovuto alla necessità della nostra mente di riconoscere minacce reali - preferendo i falsi positivi ai negativi - si conformerebbe quindi a prescindere dalla soddisfazione dei tre bisogni che andremo a descrivere, analogamente a quanto succede nel meccanismo della assuefazione nelle tossico-dipendenze o nel plagio degli adepti nelle sette religiose.


I numeri proposti dai ricercatori del Kent sembrano rispecchiare un’origine immediatamente spiegabile dalle euristiche, ma questi sono basati su sondaggi demoscopici. «Oltre un terzo degli americani crede che il riscaldamento globale sia una bufala (Swift, 2013) - continuano gli autori - e oltre la metà crede che Lee Harvey Oswald non abbia agito da solo nell'assassinio di John F. Kennedy (Jensen, 2013). Questi sono esempi di teorie del complotto, spiegazioni di eventi importanti che coinvolgono trame segrete da parte di gruppi potenti e malevoli (ad esempio, Goertzel, 1994)». 


Per spiegare i tre bisogni epistemico, esistenziale e sociale, gli autori si rifanno alla tassonomia derivata dalla system-justification theory, descritta da Jost, Ledgerwood e Hardin nel 2008. Questa descriverebbe efficacemente le ragioni che portano alla credenza nelle teorie di complotto. Per quanto gli studi in merito siano ancora scarsi, i dati disponibili non confermano né smentiscono la capacità di queste narrazioni di soddisfare i bisogni che le giustificano. 


Bisogni epistemici


La ricerca di causalità comporta, secondo i ricercatori: attenuazione della curiosità in assenza di spiegazioni immediatamente accessibili; riduzione dell'incertezza e dello sconcerto di fronte a informazioni conflittuali tra loro (dissonanza cognitiva); ricerca di un significato nelle correlazioni (diverse euristiche funzionano così); radicalizzazione delle proprie convinzioni di fronte alle smentite. Possiamo quindi assumere che i bisogni epistemici possono acuire la probabilità di incorrere nell’effetto Dunning-Kruger; nella dissonanza cognitiva; nell’euristica della disponibilità e conseguentemente nell’errore della correlazione illusoria, descritta da Hamilton e Guifford nel 1976. 


Per ottenere successo l’autore complottista deve quindi postulare azioni occulte mediate da un complesso coordinamento tra numerosi attori. La teoria di complotto deve quindi essere chiusa alla confutazione, implicando che qualsiasi dato non conforme sia stato costruito. Secondo un lavoro di Lewandowsky et al. del 2015, chiunque cerchi di sfatare le teorie di complotto viene percepito egli stesso come parte della cospirazione. Così decade quel che generalmente prevale nell’opinione pubblica e ch’è parte integrante del metodo scientifico: una tesi deve essere empiricamente garantita, elegante e falsificabile; al contrario le tesi di complotto tendono a essere speculative, ineleganti e chiuse alla confutazione. Ciò che conta per una tesi di complotto di successo è la coerenza interna della narrazione, quanto la capacità di sedare il senso di incertezza e contraddizione di fronte al mondo esterno.


«In linea con questa analisi, la ricerca suggerisce che la credenza nelle teorie della cospirazione è più forte quando la motivazione a trovare modelli nell'ambiente è aumentata sperimentalmente - continuano gli autori - È anche più forte tra le persone che cercano abitualmente significato e modelli nell'ambiente, compresi i credenti nei fenomeni paranormali […] Sembra anche essere più forte quando gli eventi sono particolarmente grandi o significativi e lasciano le persone insoddisfatte di spiegazioni banali e su piccola scala».


In generale l’assenza di spiegazioni ufficiali chiare (vedasi la cattiva comunicazione durante la Pandemia) e l’angoscia nell’incertezza, rendono la chiusura cognitiva - che porta e alimenta la credenza in teorie alternative alle «versioni ufficiali» - praticamente una necessità. Questo vale anche per chi deve imbastire questo genere di narrazione. Coerentemente col lavoro di van Prooijen e Vugt, i ricercatori notano che alcuni motivi epistemici vengono così soddisfatti a discapito di altri. Queste tesi hanno la coperta corta: sacrificano l’accuratezza in nome di una illusoria certezza. 


Tutto questo non è immediatamente evidente nel fruitore bersaglio di queste narrazioni, incapace o demotivato all’uso del pensiero critico e razionale. «La convinzione della cospirazione è correlata a livelli più bassi di pensiero analitico […] e livelli più bassi di istruzione», spiegano gli autori. A questo si può aggiungere una scarsa capacità di vedere le cose entro le normali statistiche. Si sopravvalutano le probabilità che eventi correlati siano associati causalmente e si vedono intenzionalità là dove non sono necessariamente implicite, sempre in linea col lavoro dei colleghi olandesi.


Bisogni esistenziali


Fornendo spiegazioni causali chiare di eventi o associazioni del tutto casuali o la cui spiegazione è incerta, le teorie di complotto danno una illusione di controllo, che riduce l’angoscia e il senso di impotenza, permettendo l’agire autonomo o nel contesto di un collettivo. Tutto ciò che riporta all’angoscia è percepito come minaccia. Quel che potrebbe spiegare la tendenza a radicalizzarsi e negare ogni confutazione è anche l’appagamento del bisogno di porsi al riparo da eventuali truffatori. La compensazione di queste carenze esistenziali è data dalla convinzione di possedere un sapere alternativo rispetto a quello rappresentato dalle narrazioni ufficiali. 


Questo è quanto emergerebbe dagli studi revisionati dai ricercatori. Secondo quanto emerso da diversi esperimenti, sembrerebbe che restituire un senso di controllo e serenità ai soggetti che credono nelle teorie di complotto, comporterebbe conseguentemente una riduzione di tali credenze. Viceversa, gli atteggiamenti che ricordano a queste persone la loro impotenza non farebbero altro che peggiorare il loro mind-set. Un po’ come quando l’esperto di turno blasta i complottisti che si esprimono nel Web.


La tragedia insita nel cadere in questo vortice sta nel fatto che la credenza in questo genere di narrazioni non fa altro che cristallizzare il senso di impotenza e totale mancanza di controllo, portando gli individui al nichilismo e a non impegnarsi, né nel migliorare se stessi, né dando un contributo alla Società, minando quindi quella stessa autonomia di cui i credenti nelle teorie cospirative sarebbero carenti. È facile quindi che il guru complottista diventi il punto di riferimento principale di queste persone, divenendo quello stesso imbroglione da cui alcune di loro avrebbero voluto mettersi al riparo. 


Il plagio è sempre dietro l’angolo ed è piuttosto subdolo. I ricercatori citano un lavoro di Douglas e Sutton del 2008, dove durante un esperimento delle persone venivano persuase da argomentazioni complottiste. Queste interrogate in un secondo momento, non avevano cognizione del fatto che il loro pensiero era cambiato. 


Bisogni sociali


Le teorie cospirative appagano anche il bisogno di costruire una immagine positiva di sé e del gruppo di appartenenza. Ogni fallimento personale o della propria squadra sarà quindi frutto degli agenti malevoli della cospirazione. All’origine di questo mind-set potrebbe esserci - come osservato in diversi studi - l’aver vissuto l’esperienza dell’ostracismo. Non è difficile trovare esempi di giornalisti, scrittori e personaggi dello spettacolo, che hanno sposato la credenza in diverse teorie di complotto dopo un periodo in cui hanno vissuto un danno di immagine per svariati motivi. 


Il giornalista sorpreso a pubblicare informazioni errate e per questo messo alla gogna, potrebbe finire per convincersi che tali errori fossero indizi di una verità alternativa, in cui sono incappati accidentalmente. Così le narrazioni cospirazioniste danno l’opportunità di riparare il proprio ego danneggiato. Va da sé che anche percepirsi come parte di un gruppo o etnia svantaggiato, può rendere suscettibili a cadere nel mind-set complottista. Concepire se stessi dalla parte dei perdenti porta a percepire l’esistenza di gruppi potenti da cui proteggersi e desiderare l’adesione a gruppi che rispecchiano questa percezione di sé. 


Similmente al lavoro di van Prooijen e van Vugt, anche qui troviamo l’identificazione di fattori come il narcisismo e l’ideazione paranoica; a questi i ricercatori aggiungono anche il narcisismo collettivo. Le teorie di complotto portano inoltre a sviluppare sentimenti di alienazione e anomia. Così l’individuo o il gruppo si isolano dagli altri, peggiorando o generando la situazione di inferiorità e impotenza percepiti.


Foto di copertina: viarami | Immagine di repertorio.

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